martedì 3 giugno 2008

Perché non far fruttare il patrimonio pubblico italiano?

Se lo chiede il giornalista Giovanni Valentini nel suo articolo “Come far fruttare il patrimonio pubblico” apparso sul quotidiano La Repubblica di mercoledì 21 maggio 2008. L’Italia ha un patrimonio pubblico vastissimo composto di beni materiali (come immobili e terreni), grandi infrastrutture (come porti, aeroporti, strade, autostrade ed acquedotti), risorse naturali (come montagne, beni culturali, beni storici, paesaggio, fiumi e laghi), beni immateriali (come la moneta, i crediti pubblici, marchi, brevetti, frequenze elettromagnetiche e diritti televisivi su manifestazioni sportive) e quant’altro. Un patrimonio davvero immenso, stimato in ben il 140% del Prodotto Interno Lordo: tuttavia, solo il 25% di questo (per un valore di circa 400 miliardi di euro) è in grado di produrre reddito ed è quella parte composta di immobili, crediti, partecipazioni e concessioni. Si tratta dunque di un patrimonio pubblico che ha un reddito nettamente negativo, visto che il 75% non produce ricchezza: conoscendo i forti problemi economici che il nostro paese ha da decenni e alla continua ricerca di tagli alle spese, pensate che se si riuscisse a far fruttare questo patrimonio di almeno il 2% si otterrebbero ben 10 miliardi di euro all’anno da utilizzare nella Pubblica Amministrazione!!!
Per quanto riguarda gli immobili pubblici, quelli considerati in eccesso rispetto alle esigenze delle funzioni pubbliche potrebbero essere privatizzati ottenendone una cifra che va dai 100 ai 150 miliardi di euro (pari a 10-15 punti di Pil…): una bella somma che potrebbe essere utilizzata per nuove opere o per ridurre il famigerato debito pubblico (quest’ultimo ci costa ben 70 miliardi di interessi all’anno…), senza ricorrere sempre alle tasche dei cittadini.
Per quanto riguarda i beni demaniali, l’Italia si ritrova notevolmente arretrata rispetto ai paesi europei: è arrivato il momento di rimodernare la disciplina che è rinchiusa in appena 10 articoli del Codice Civile (dall’822 all’831). Già qualcosa è stato fatto: nel giugno 2007 è stato fatto un disegno di legge-delega predisposto da una commissione nominata dall’ex ministro Mastella, presieduta da Stefano Rodotà (ordinario di Diritto Civile all’Università La Sapienza di Roma) e composta da diversi giuristi ed economisti tra cui Ugo Mattei (ordinario di Diritto Civile all’Università di Torino), Giacomo Vaciago (ordinario di Politica Economica all’Università Cattolica di Milano) ed Edoardo Reviglio (docente di Scienza delle Finanze all’Università di Reggio Calabria). Il progetto elaborato dalla Commissione prevede innanzitutto una nuova categoria di beni, i cosiddetti “beni comuni”, ovvero quelli che non rientrano nella categoria dei beni pubblici poiché sono a titolarità diffusa e possono appartenere anche a privati: oltre ai beni naturali (come montagne, fiumi, laghi, parchi, aria, ecc…), ne fanno parte anche i beni archeologici, culturali ed ambientali. Secondo la relazione di accompagnamento di questo disegno di legge-delega, questi beni comuni soffrono di una situazione altamente critica per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche: sono cose che hanno utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona, con riguardo anche alle generazioni future. Ecco perché è stata creata una disciplina garantistica in tal senso, in grado di preservare a questi beni comuni in ogni caso un godimento collettivo. È risaputo come la possibilità di concessione (per utilizzo) di questi beni comuni ai privati sia severamente limitata: tuttavia, se allo Stato spetta il diritto al risarcimento o alla restituzione del bene comune utilizzato in caso di danno commesso dal privato a questo bene, allo stesso tempo chiunque può usufruire del bene comune (in quanto titolare di un corrispondente diritto soggettivo) ha la facoltà di ricorrere alla magistratura per denunciarne l’uso improprio.
Per quanto riguarda invece i beni pubblici (appartenenti a soggetti pubblici), il nuovo progetto della Commissione Rodotà abbandona la distinzione degli stessi in demanio e patrimonio ed individua tre nuove categorie:

  • beni ad appartenenza pubblica necessaria: sono quelli che soddisfano interessi generali fondamentali come la sicurezza, l’ordine pubblico e la libera circolazione, e comprendono le opere destinate alla difesa come la rete ferroviaria, stradale ed autostradale, i porti e gli aeroporti. Tutti questi beni resteranno inalienabili (cioè non potranno essere trasferiti ad altri) e non potranno essere soggetti ad usucapione (cioè coloro che li utilizzano da almeno 20 anni non potranno far valere la loro proprietà su di essi, vedi artt. 1158-1167 del Codice Civile); sono previste inoltre per questi beni garanzie esplicite per la tutela risarcitoria ed inibitoria;
  • beni pubblici sociali: sono quelli che soddisfano esigenze del privato che a sua volta ha un peso rilevante nella società dei servizi. Ne fanno parte le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli ospedali, le università, gli edifici scolastici e le reti locali di pubblico servizio. Per questi beni il vincolo di destinazione d’uso può decadere solo se verrà assicurato il mantenimento o addirittura il miglioramento dei servizi sociali erogati: la loro tutela amministrativa spetta allo Stato o ad enti pubblici anche non territoriali;
  • beni pubblici fruttiferi: si tratta di beni privati in appartenenza pubblica, alienabili e gestibili con strumenti di diritto privato. Tuttavia vengono stabiliti dei limiti alla loro alienazione per evitare le cosiddette “dismissioni facili” e per garantire un’amministrazione efficiente da parte di soggetti pubblici.

Questi ultimi beni sono quelli che possono apportare maggiori benefici all’erario statale in quanto favoriscono un’utilizzazione più efficiente del patrimonio pubblico. Lo scopo fondamentale del disegno di legge-delega è infatti quello di evitare due cose: sia l’inutilizzo del patrimonio pubblico (che non porta alcun vantaggio economico per la società) sia le dismissioni facili e le svendite di Stato (che invece portano vantaggi economici solo a pochi). Si vuole quindi far fruttare al meglio questo patrimonio pubblico, fermo restando il principio assoluto della sua tutela sociale ed ambientale, dandolo in uso a soggetti vari i quali pagheranno un corrispettivo che sarà rigorosamente proporzionale ai vantaggi che gli stessi ricaveranno dall’utilizzo del bene. Una bella somma economica che andrà utilizzata dallo Stato per i servizi dei cittadini, visto che il patrimonio pubblico è comune e quindi anche i benefici che se ne ricavano devono restare comuni.

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