mercoledì 4 dicembre 2013

PESTICIDI nell'acqua del Nord Italia

Da un'inchiesta del settimanale “L'Espresso” del 28 novembre 2013 (articolo di Gianluca Di Feo), che riprende i risultati (allarmanti) dell'ultimo “Rapporto nazionale pesticidi nelle acque” pubblicato dall'ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, http://www.isprambiente.gov.it/it) relativo al biennio 2009-2010, si riscontrano dati davvero inquietanti: sono stati trovati pesticidi nel 55% delle acque superficiali italiane, nel 28% delle quali in quantità superiori alla soglia di potabilità!! Un po' meglio la situazione delle falde: rilevati pesticidi nel 28% delle analisi, dei quali il 9,6% oltre la soglia di pericolo (ma ricordiamo che nelle falde i veleni si depositano lentamente). Qual'è l'area dove l'emergenza è più grave? La pianura padano-veneta, ove si pratica l'agricoltura estensiva (ove l'impiego di sostanze chimiche è davvero massiccio). Ecco alcuni dati: nei fiumi e nei laghi sono stati trovati pesticidi sopra i limiti di sicurezza in 111 prelievi nella Lombardia, in 93 nel Veneto, in 60 nell'Emilia Romagna, in 49 nel Piemonte, in 12 nella Toscana, in 8 nel Friuli Venezia Giulia, in 5 nella Sicilia e nella Campania, 3 nel Lazio; nelle acque sotterranee superata la soglia di pericolo in 87 prelievi nel Piemonte, in 38 nella Lombardia, in 28 nella Sicilia, in 14 nell'Emilia Romagna, in 12 nel Veneto, in 11 nel Friuli Venezia Giulia, in 4 nel Lazio e in 2 nella Toscana. Delle oltre 149.000 tonnellate di pesticidi agricoli venduti nel 2010, la maggior parte sono stati utilizzati proprio in Pianura Padana. 
Naturalmente le colpe non sono tutte additabili all'agricoltura estensiva, ma anche ad un'industria che per decenni ha sversato senza regole nel territorio tonnellate di veleni. Il censimento dei siti più inquinati comprende 57 aree distribuite su tutto il Paese, e in queste zone vivono 6 milioni di persone (pari al 10% della popolazione!): le raffinerie di Napoli, Gela, Priolo e Marghera, le aziende chimiche di Brescia, Savona e Manfredonia, l'amianto dlele fabbriche di Casale Monferrato, di Broni e di Balangero, le discariche di rifiuti tossici in Campania, l'Ilva di Taranto, l'ex Italsider di Bagnoli, ecc... Si tratta di 57 “siti di interesse nazionale” così inquinati che hanno bisogno di provvedimenti d'urgenza per proteggere gli abitanti dalla minaccia ambientale. Il problema è che mancano organismi centrali con standard comuni, mentre la rete dei controlli fa acqua da tutte le parti: ogni Regione, ad esempio, agisce per conto suo decidendo in proprio come e quando fare le verifiche (alcune Regioni mandano dati parziali, addirittura alcune Regioni non rispondono proprio all'Ispra, come la Campania e la Liguria!!!). Inoltre, il rapporto dell'Ispra copre soprattutto i prodotti fitosanitari (quelli che uccidono le piante, per capirsi) mentre è carente sui biocidi (quelli che colpiscono invece insetti e parassiti, che sono talvolta ancora più pericolosi). E c'è anche un altro problema, tutto italiano: non si valutano i pericoli provocati dalla presenza contemporanea di più sostanze velenose (i limiti di legge prendono infatti in considerazione un singolo prodotto chimico ed i suoi effetti sulla salute, ma non il mix di veleni). A tal proposito si apprende dal rapporto “Pesticidi nel piatto” di Legambiente (http://www.legambiente.it) che solo lo 0,6% dei prodotti alimentari prodotti in Italia non rispetta i limiti di legge sui pesticidi contenuti, ma nel 17% degli alimenti vi si trovano più sostanze pericolose: ognuna presa singolarmente rispetta i livelli previsti, ma nessuno sa valutarne il pericolo del loro mix. 
E qui entra in gioco, come sempre, la politica: l'elenco delle aree inquinate era già compilato nel 2001, ma da allora nessuna opera di bonifica è stata fatta. Nel frattempo centinaia e centinaia di milioni di euro sono stati utilizzati in questi anni dal Ministero dell'Ambiente solo per pagare gli stipendi dei commissari straordinari e per mantenere le strutture provvisorie destinate a contenere i danni (anzichè ripararli). E poi fiumi di denaro (sempre pubblico) per studi e soluzioni irrealizzabili proposte da varie società private. Questa è una classe politica? NO!

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